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La fine del web come lo conosciamo In evidenza

Image by emely krause from Pixabay Image by emely krause from Pixabay

Per oltre vent’anni Google è stato il cuore del web aperto.
Ha reso l’informazione accessibile, ha dato visibilità a milioni di siti, ha trasformato il caos della rete in un sistema navigabile.
Senza un motore di ricerca capace di organizzare il sapere, il web non sarebbe mai decollato.
Ma oggi quel motore sembra voler trattenere tutto il traffico che un tempo distribuiva.
È cominciata la fine del web come lo conosciamo

Google ha rotto il patto con chi il web lo crea

Per oltre vent’anni Google è stato il cuore del web aperto.
Ha reso l’informazione accessibile, ha dato visibilità a milioni di siti, ha trasformato il caos della rete in un sistema navigabile.
Senza un motore di ricerca capace di organizzare il sapere, il web non sarebbe mai decollato.
Ma oggi quel motore sembra voler trattenere tutto il traffico che un tempo distribuiva.
È cominciata la fine del web come lo conosciamo

Quando Google cominciò a “tenersi” le risposte

Il problema non nasce con l’intelligenza artificiale.
Le prime avvisaglie risalgono ai rich snippet: quei riquadri in cima ai risultati di ricerca che ti dicono subito quanto è alta la Torre Eiffel o quanti anni ha un attore.
Google non ha misurato la torre né intervistato nessuno: ha letto un sito, ne ha estratto l’informazione e l’ha servita come propria.
Senza compenso, senza traffico.

Era già una forma di appropriazione, ma tollerata.
Perché Google, nel complesso, portava visitatori.
Il sistema era simbiotico: i publisher producevano contenuti, Google li rendeva trovabili, tutti beneficiavano.
Un equilibrio fragile, ma equo.
Finché è durato.

Dall’intermediazione alla sostituzione

Con AI Overview e AI Mode, Google ha cambiato le regole del gioco.
Non mostra più solo i risultati: li riscrive.
Prende le informazioni dai siti, le mescola e le restituisce come risposte generate dall’AI.
L’utente non ha più bisogno di cliccare, confrontare, leggere.
Google risponde. Punto.

Non è un’evoluzione dei rich snippet: è una rottura.
Il motore di ricerca è diventato motore di risposte, e questo lo mette in concorrenza diretta con le fonti da cui attinge.
Il traffico non viene più distribuito, ma trattenuto.
Ogni risposta sintetizzata è un pezzo di web sottratto alla sua origine.

Il dilemma etico (oltre che economico)

Dietro il calo di traffico e ricavi per i publisher c’è una questione più profonda: quella etica.
Google monetizza informazioni che non ha prodotto, ma che altri hanno raccolto, verificato e pubblicato.
È un uso commerciale non autorizzato del lavoro altrui — eppure reso invisibile sotto l’etichetta della “conoscenza condivisa”.
Un po’ come se una casa editrice potesse stampare libri riassunti, senza citare o pagare gli autori.

Le cause legali contro i grandi modelli linguistici stanno già affrontando il tema del diritto d’autore, ma il confine è ancora sfumato.
Intanto, l’asimmetria cresce: Google guadagna da ciò che consuma, mentre chi produce non ha più incentivo a creare.

Il blocco impossibile

Sì, i siti possono tecnicamente bloccare gli spider dell’AI o del motore di ricerca.
Ma è una difesa illusoria: se lo fai da solo, perdi visibilità; se lo fanno tutti, Google smette di funzionare.
È il dilemma del prigioniero: ognuno agisce nel proprio interesse, e tutti perdono.
Finché non esiste un’azione collettiva o una normativa condivisa, la dipendenza resta totale.

Perfino Wikipedia

Anche Wikipedia, simbolo del web libero e collaborativo, è una delle vittime silenziose di questo sistema.
Per anni Google ha mostrato i suoi contenuti negli snippet, nelle definizioni e nelle risposte rapide: era una forma di collaborazione implicita, ma funzionava.
Oggi l’intelligenza artificiale di Google riassume e riformula anche quei testi, senza più neppure inviare traffico di ritorno.
Eppure Wikipedia vive solo di volontariato e donazioni: non ha un modello di business, non vende pubblicità, non può “ricomprare” la propria visibilità.
È l’esempio più chiaro del nuovo squilibrio: Google monetizza perfino la conoscenza collettiva, senza restituirle valore.

Quando l’AI finirà le idee

La parte più ironica è che, se i publisher smettono di produrre contenuti perché non vengono più remunerati, l’AI stessa si troverà senza nuova linfa.
I modelli linguistici imparano leggendo il web.
Ma se il web smette di scrivere, anche l’intelligenza artificiale diventa più stupida: autoreferenziale, ripetitiva, incapace di aggiornarsi.
Google rischia di prosciugare la fonte che alimenta la sua stessa intelligenza.

Ritrovare un nuovo equilibrio

Non si può negare ciò che Google ha dato al web: ha reso possibile la scoperta, la diffusione e l’accesso all’informazione.
Ma oggi, quello stesso ecosistema rischia di implodere per mancanza di reciprocità.
Il web aperto vive di scambio: traffico in cambio di contenuti, visibilità in cambio di valore.
Se uno dei due smette di dare, l’altro smette di esistere.

Il futuro più probabile: meno web, più piattaforme

Lo scenario più realistico non è un ritorno all’equilibrio, ma un ridisegno del web.
Google, pressata da cause legali e normative, finirà per stipulare accordi diretti con i grandi gruppi editoriali, gli unici con abbastanza forza contrattuale da farsi pagare per l’uso dei propri contenuti.
I giganti dell’informazione otterranno compensi e visibilità all’interno dei risultati generati dall’intelligenza artificiale.
Tutti gli altri — i blog indipendenti, le riviste di nicchia, i siti specializzati, i creatori che non hanno una struttura industriale — resteranno esclusi.

In pratica, il web aperto tornerà a somigliare al mondo dell’informazione pre-internet: pochi grandi editori, pochi canali certificati, molte voci silenziate.
Google avrà salvato il proprio business, ma al prezzo di riportare l’informazione dentro un recinto controllato.
L’illusione della rete libera, dove chiunque poteva pubblicare e farsi trovare, svanirà definitivamente.

Eppure una parte di questo ecosistema sopravvivrà — ma fuori dal web tradizionale.
Molti autori e piccoli editori stanno già spostando il proprio lavoro su piattaforme con un modello di remunerazione interno, come YouTube, TikTok, Substack o persino OnlyFans, che in modi diversi garantiscono ai creator una forma di ritorno economico.
Non è una vittoria della libertà, ma una migrazione verso ambienti dove la pubblicazione viene pagata, anche se a costo di perdere autonomia e dipendere da nuovi algoritmi.
Il risultato sarà un web sempre meno aperto, ma dove le persone continueranno a creare e a raccontare.
Solo che non lo faranno più “su Internet”, ma dentro Internet — dentro le piattaforme che ne hanno preso il posto.

Il regno senza sudditi

Per vent’anni Google è stato il grande alleato dei siti, dei giornalisti, dei blogger.
Oggi rischia di diventare il loro principale concorrente.
Ha insegnato al mondo che “il contenuto è re”, ma ora sembra voler coronare se stessa come unica sovrana.
Solo che un regno senza sudditi non può durare.
E se il web aperto muore, anche l’intelligenza che se ne nutre presto smetterà di crescere.

Fonti


Non so se questo articolo verrà letto tra un anno, o se il sito che lo ospita sarà ancora online.
Ma mi sembrava giusto scriverlo qui, ora, nel posto stesso che rischia di sparire.
Perché il web, finché esiste, merita almeno una cronaca della propria fine.

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